venerdì 2 marzo 2012

Il sangue di Latina



Ho sognato una città.
Che sogno, ragazzi!
E’ pazzesco quello che il cervello può permettersi. Peccato che dia il meglio di sé, solo quando stiamo dormendo.
Per pura curiosità, ho aperto il dizionario dei sinonimi e contrari e questo è quanto:
Sogno, sm visione - allucinazione. FIG. illusione, - fantasia -utopia - chimera - progetto - aspirazione - fantasticheria - ideale - speranza. CONTR. realtà.
Capito?
Io ho sognato e poi scopro che ho potuto sognare anche molto altro ancora.
Allora mi chiedo: tutta quella roba scritta sul dizionario, si adatta al mio sogno ed anche alla mia città?
Che cos’è Latina se non un sogno sognato un po’ di anni fa?
Il mio filmetto onirico iniziava con una donna che mi inseguiva su una bicicletta, una di quelle con il cestello attaccato al manubrio, mentre io correvo verso il mare. Lei urlava delle frasi in una lingua che non capivo. Io correvo e lei mi inseguiva. Correvo e mi inseguiva. Si avvicinava.
Una radice di pino sul marciapiede, che non avevo visto, mi fece cadere. E lei frenò con i tacchi, ad un centimetro dalla mia faccia.
“I Tespi! I Tespi! I Tespiiiiiiiiii!” urlò.
“I tespi?” dissi, alzandomi da terra.
“I Carri dei Tespi!”
Sorridendo, mise una mano nella tasca del grembiule e tirò fuori una foto molto malridotta.
“I Tespi sono questi!” disse mostrandomi la foto.
Non si capiva un granché. Si vedeva un sacco di gente vestita strana, su un carro.
“E allora? Che cosa sono i tespi?” dissi.
“Ignorante! Vedi di colmare la lacuna! Informati, chiedi in giro! Ignorante!”
La donna gettò via la foto e ne prese un’altra, sempre dalla stessa tasca.
“Questa è la torre medievale che era dove ora c’è il Circolo Cittadino, in Piazza del Popolo. Tieni, te la regalo” mi disse.
Una torre medievale? A Latina? Ma...
“E perché l’hanno buttata giù?” le chiesi guardando la foto.
La donna agitò una mano, come a dire: si, va be’.
“Ma perché era vecchia!Immagina tu che scena: un rudere in una piazza nuova di zecca, in una città nuova di zecca. Te lo immagini?”
Mi immaginai la scena. Sarebbe stato magnifico.
“Ma tu la sai la storia del camion e del gatto?” mi domandò sorridendo.
“Mi sa tanto che mi trovi un po’ impreparato.”
La donna scese dalla bicicletta.
“Ah!” urlò a pieni polmoni. “Ma dove sei nato, tu?” chiese puntandomi l’indice in faccia.
“A Latina.”
“E allora perché non conosci la storia del camion e del gatto? E’ l’unica leggenda che abbiamo, qui.”
Che Latina avesse una leggenda mi giungeva nuovo. Sarà che io non amo molto la mia città, anche se ci sono nato ma poi a 3 anni sono andato ad abitare a Fondi, fino ai 13. E poi sono tornato ad abitare a Latina e mi sono...
“La leggenda è questa: mancava pochissimo tempo all’inaugurazione di Piazza del Popolo e quindi di Littoria. Mussolini sarebbe arrivato tra poco. Nella piazza c’era un casino pazzesco e da una parte c’era ancora un buco. Presto, si deve riempire quel buco!, urlò qualcuno. Non avrebbero mai fatto in tempo. Mussolini era vicinissimo. Ed ecco allora l’idea. Buttateci dentro quel camion!, ordinò uno. Ma dentro c’è un gattino, l’ho visto che era lì. Me ne frego! Buttate dentro il camion! Il gattino si era nascosto dentro la cabina. Non si trovava. Insomma... Il camion finì nel buco, fu ricoperto di terra e amen. Pare che sia vero.” La donna si fece il segno della croce.
Mah..., pensai.
“Guarda!” disse imperiosamente la donna.
Guardai la foto che mi aveva messo sotto il naso. Mussolini sudato, a torso nudo, che trebbiava di buona lena.
Oddio! Vista e rivista. Possibile che questa città non pos...
“Lo sai chi è?”
“Il Duce che ci dà la luce?” risposi.
“Fai lo spiritoso?”
“Sì.”
Cominciò a piovere e la donna tirò fuori da una tasca un foulard e se lo mise in testa, legandoselo sotto al mento.
“Lo sai che quando c’era Lui i treni viaggiavano in orario?”
Lì mi incazzai.
“Poteva fare il capostazione, allora!” risposi con la celebre battuta di Troisi.
“Continui a fare lo spiritoso?”
La pioggia diventò una specie di uragano.
“Hai visto? Gli eucalipti che aveva fatto piantare Lui li stanno tagliando tutti. E’ questo il risultato: meno frangivento=più vento.”
“E tu non ti ribelli?” le domandai.
“Non me ne frega niente.”
Improvvisamente, davanti a noi si abbattè un deltaplanista, arrivato chissà da dove.
“Cazzo! Uno non può neanche volare tranquillo. Che uragano!” disse alzandosi da terra.
Il suo deltaplano si era completamente sfasciato nell’impatto. L’uomo si tolse il casco, si liberò dall’imbracatura e se ne andò, lasciando lì i rottami.
“Senti”, mi disse la donna, con le mani ai fianchi, “ma tu la ami Latina, la tua città?”
“Non me ne frega niente di amarla” le risposi.
“E perché?”
“Perché è provinciale, perché non cambierà mai, perché non fa niente per la cultura, perché addormenta i cervelli. Ma soprattutto perché è una città che guarda solo al passato. Ti basta?”
“Ecco. Il passato. Guarda.” Sempre dalla solita tasca del grembiule, tirò fuori un’altra foto.
Una casa colonica. Davanti alla porta d’ingresso si vedeva una famiglia di 9 persone. Le loro facce sembravano tristi ma avevano uno sguardo fiero. Tutti erano vestiti a festa. Non so come ma la foto gridava ‘ce l’abbiamo fatta!’.
“E’ una famiglia di Rovigo” mi disse la donna. “Ora guarda quest’altro scatto.”
La palude. Acqua, acqua e acqua, alberi millenari, un senso di incredibile forza e desolazione insieme.
“Ancora un’altra” mi disse.
Una fila interminabile di persone con delle valigie o dei sacchi sulle spalle, che va verso una direzione.
“E’ la stazione di Cisterna. Sono tutti coloni con le loro famiglie, appena scesi dal treno. Da lì, li porteranno verso il pezzo di terra con la casa colonica che gli hanno assegnato. Un’altra.”
Buoi che trainano carri pieni di spighe.
“Un’altra.”
Uomini con cinturoni, pistole e cartucce.
“Questo serviva per tenere a bada evasi, pregiudicati ed altri avanzi di galera che venivano a lavorare nella palude, per scomparire dalla società. E la malaria, ogni tanto, se li portava via.”
La malaria... Quanti ne sono morti a causa sua?
“Ah! Stai pensando alla malaria. I morti, a causa sua, sono stati migliaia. Migliaia. Non posso essere più precisa, mi dispiace. Però, tieni conto che i medici erano i professionisti più numerosi a Littoria. Comunque la malaria c’era e ne uccideva tanti.”
“Lo so benissimo. Ma non puoi chiamarla Latina, invece che Littoria? E basta! Sempre con il passato, con Mussolini, la palude, la bonifica... Ho tutto il rispetto per le persone che sono venute qui ed hanno lavorato per prosciugarla la palude, per i morti di malaria ma... Guardare avanti, no? Esiste solo il passato?” urlai.
“Perché ti scaldi tanto? Anche tu sei questa città, anche tu sei un prodotto della palude.”
Aveva smesso di piovere in un decimo di secondo.
La donna si tolse il foulard bagnato e lo gettò a qualche metro di distanza.
“La retorica mi piace tanto. E’ la cosa che amo di più. Littoria... Va bene, va bene... Latina è stata sacrificio, scommessa e tanto altro. Ascolta... Te la sentiresti di fare una cosa pazzesca? Una di quelle che poi ti fanno sentire un uomo stupidamente felice?” La donna battè le mani gioiosamente. “Vorresti aiutarmi a fare una cosa di cui ci pentiremo subito dopo?”
Un piccione volò sopra di noi e defecò sulla mia testa.
Non sono superstizioso ma questa cosa mi sembrava vagamente profetica.
“Come ti chiami?” chiesi alla donna.
“Io?”
“E chi, sennò?”
Unì le mani come per pregare.
“Vedi, io ho mille nomi. Anna, Milena, Caterina, Francesca, Maria, Agata, Claudia, Marisa, Enza, Agnese,  Stefania, Eva, Lydia, Patrizia, Assunta, Simona, Clara, Paola, Giorgia, Giovanna, Diana... Vuoi che continui?”
Sono sicuro che mi avrebbe snocciolato altri mille nomi.
“Allora ti chiamerò Littoria. Contenta?”
“No.”
“Perché?”
“Il perché è semplice: mi chiamo come voglio chiamarmi.”
Mah...
Non so come, ma mi ritrovai seduto sulla palla di marmo della fontana di Piazza del Popolo. La donna che si chiamava come voleva chiamarsi, era seduta su una delle panchine di marmo, davanti a me. In mano aveva delle candele un po’ più grandi del normale e sulla bocca aveva un sorriso vagamente folle.
Si alzò lentamente e cominciò a danzare, passandosi le candele da una mano all’altra. Nella piazza non c’era nessuno. Però non era quella che conoscevo. O meglio... Era Piazza del Popolo, ma non quella di oggi. Dalla palla su cui ero seduto, vedevo che il palazzo dove ora c’è Benetton e prima ancora La Standa, mancava. Al suo posto, invece, una cosa bassa bassa con su scritto ‘Cinema dell’Aquila’. Tutto era diverso. Il Palazzo del comune c’era, il Circolo Cittadino c’era... ma mancava troppo. E tutto aveva un non so che di nuovo, di appena costruito. 
In un battito di ciglia la piazza ridiventò quella che conoscevo, con Benetton e tutto il resto. Subito dopo era un caos dove molti uomini lavoravano per tirare su la torre del Comune. Poi vedevo, in lontananza nelle vie che partono da Piazza del Popolo, costruzioni che crescevano a vista d’occhio. In un istante, ero a mollo nella fontana perché la palla di marmo mi aveva disarcionato e questa cominciò a rotolare qua e là, distruggendo tutto quello che incontrava davanti a sé.
Altro che i film di Spielberg.
Mi ritrovai a cavalcare la palla, verso il lago di Fogliano. Arrivati lì, insieme abbattemmo un bel po’ di alberi, schiacciammo qualche papera e tornammo indietro, riducendo a macerie via Isonzo e quindi rotolammo di nuovo  in Piazza del Popolo, dove il globo di marmo si risistemò buono buono al centro della fontana.
Con un certo stordimento, mi avvicinai alla donna che si chiamava come voleva chiamarsi.
“Si può sapere chi cazzo sei?”
“Se ti dico Circe ti accontenti?”
“No.”
“Senti... Mi sembra che tu ami Latina alla follia ma te ne vergogni.”
“Ma vaffan...”
“Appunto. Tu sei le vene di questa città. Tu, te lo ripeto, sei le vene di questa città.”
Le vene? Le veneeeeee? Uauh! Nessuno me l’aveva mai messa così! Abito in una città e sono le sue vene? E allora il suo sangue che cos’è?
La donna poggiò a terra le candele e cominciò ad applaudire. Nel tempo che mi occorse per battere le ciglia, me la ritrovai davanti, vestita da piccola italiana. Con un fascio di spighe di grano, che cominciò a gettare una ad una, come Wanda Osiris.
Lentamente, si chinò per raccogliere le grosse candele e le mise tra le spighe.
La piazza fu invasa dalle note di Faccetta nera.
La donna cominciò a camminare sculettando e ogni tanto gettava qualche spiga ed una candela. Qua e là.
Arrivata in quello spazio squallido e vuoto della piazza dove non c’è niente, ricoperto di sampietrini, gettò tutto intorno a sé le ultime spighe e le ultime candele.
Faccetta nera, finalmente, esalò le ultime note.
La donna si inchinò teatralmente.
Mica si aspettava da me un applauso?
“Hai un accendino?” mi chiese vestita di nuovo da contadina.
“Sì. Ma... perché?”
“Non vuoi sapere cos’è il sangue di Latina?”
Sapevo già che mi leggeva nel pensiero, quindi non mi stupii più di tanto.
“Non è che me ne freghi un granché. Comunque, cos’è il sangue di Latina?”
“Dammi l’accendino e lo saprai.”
La curiosità prevalse. Con molta nonchalance tirai fuori l’accendino dalla tasca e glielo diedi.
“Lo immaginavo. Un Bic. Rosso.”
“Ti aspettavi un Dupont d’oro?”
“No. Perfettamente in linea con il tuo comunismo d’accatto. E inutile a Latina.”
La prendo a schiaffi sull’istante?
“Comunque, la fiamma la fa lo stesso. E prova a picchiarmi” mi rispose accendendo più volte il Bic rosso.
Si accovacciò e diede fuoco agli stoppini delle grosse candele. Visto che c’era, fece lo stesso con alcune spighe.
“Ripariamoci!” urlò, correndo verso i portici del comune.
Qualcosa mi diceva che dovevo seguirla. E di corsa.
Dopo neanche tre secondi che eravamo al riparo, una ventina di esplosioni squassò la piazza.
Le orecchie non...
“Ma che cazzo hai fatto!” urlai alla donna che si chiamava come voleva chiamarsi.
“Ora vedrai il sangue di Latina. LITTORIA!” urlò.
Cominciò a correre verso il cratere aperto nella piazza.
La donna era vestita molto elegantemente in Gucci, Ferrè o Armani. O Valentino. Boh... Comunque era elegantissima, anche se continuava ad urlare ‘LITTORIA!’.
Io, che ero le vene della mia città, la seguii per vedere questo mitico sangue di Latina.
Arrivammo al bordo dell’enorme buco. Aveva un diametro di almeno 20 metri ed una profondità di circa 4.
La donna si sporse per vedere meglio.
“Porca puttana! Mi sa che il T4 era troppo” disse.
“Il T4?”
“L’esplosivo. Quello che ho usato per fare ‘sto casino. Ne dovevo mettere meno...” mi rispose pensierosa.
“Beh... è un bel buco, però” dissi.
“Si, è vero. Però il sangue di Latina non c’è più.”
“Potrei sapere cosa cazzo è questo sangue di Latina?”
“Devo essere sincera?”
“Lo apprezzerei molto” risposi.
Nel frattempo aveva cambiato ancora abbigliamento. Ora era una specie di Cenerentola scarmigliata.
“Guarda!!!” gridò indicandomi un punto, quasi in fondo al cratere.
Guardai dove lei indicava con il dito puntato. La terra si muoveva. Molto lentamente ma si muoveva. Ad un certo punto sembrò come ribollire.
La donna cominciò a saltare, a ballare e ad applaudire. Ora era in bikini e zeppe altissime ai piedi.
“Lo sapevooooooo! Lo sapevoooooooooooooo! Guarda, quello è il sangue di Latina!!!”
Dal fondo del cratere udii un suono debolissimo. Mi inginocchiai per essere un po’ più vicino al fondo. Il suono era debole, molto flebile.
Improvvisamente, io e la donna ci ritrovammo giù nel buco.
Lei era vestita da esploratrice, con sahariana, cappello e tutto il resto, compresa una piccola piccozza.
“Ti presento il sangue di Latina!” mi disse trionfalmente. La vidi trasformarsi lentamente in regina, con tanto di corona e scettro.
La terra si mosse ancora. E finalmente udii chiaramente il suono.
“Miao... miao...”
Un gattino multicolor sbucò dalla terra.
Sopra di noi, nella piazza, un camion tossicchiò. Due, tre affondate di acceleratore e partì.

Mi svegliai perché Ciro, il mio gatto, mi leccava insistentemente una mano. Voleva mangiare.

Latina, 2006
 
Pubblicato nel 2006 nell'antologia 'Racconto Latina', Ego Book edizioni.