lunedì 10 aprile 2017

Etienne



Blue eyes era il suo soprannome, anche se aveva gli occhi verdi. Etienne il suo nome. Il cognome non ha importanza, ma la sua vita sì. E che vita, ragazzi.

Ho bisogno di un inizio. Un inizio esplosivo, roboante, da fine del mondo...
“Ueeeeeeeeehhhh!”

“Signora, è un bel maschietto!” giubilò l’ostetrica.
Il neopadre si avvicinò alla neomamma chiocciando stupidamente.
“Ooooh... Ooooh... Oooooooh. Quanto è bello!” gridò improvvisamente.
“Spaventa il bambino, Paul” sussurrò l’ostetrica.
“Non urlare, imbecille!” gridò la neomamma Marie.
Etienne girò la testa lentamente e fissò negli occhi tutti e tre. Aveva uno sguardo che un neonato non dovrebbe avere, perché ancora non sa cos’è l’odio. O forse sì.
Le sue labbra erano rosse come quelle dell’ostetrica. Il mento aveva una fossetta come quella di Paul. E le unghie erano laccate di rosso come quelle di Marie.

“Etienne, ora mi hai stancato veramente! Vai fuori dall’aula per 10 minuti!”
Quella settimana, era la quinta volta che veniva sbattuto fuori dalla classe. Sapeva come esasperare i maestri. E si divertiva un mondo a farlo.
Voi come vi sentireste se, mentre spiegate che 8x8 fa 64, un alunno seduto al suo banco, prendesse le vostre sembianze in tutto e per tutto?
Ed Etienne faceva esattamente quello.

“Ti ho detto mille volte che non voglio avere per casa Katharine Hepburn o Charlot! E nemmeno John Wayne!!! E’ così difficile da capire? Mi imbarazza avere tra i piedi celebrità mentre pulisco il bagno o lavo i piatti! Esci da casa quando senti che Humphrey Bogart o chi vuoi tu devono manifestarsi! Via!”
La vita è dura.

C’è da dire che Etienne non approfittò di quella strana, diciamo così, dote. Ad essere sinceri lo fece solo una volta. E non è che ne uscì alla grande.
Una mattina, improvvisamente, si innamorò. Capita, a 8 anni, di innamorarsi in un secondo. Va bene, d’accordo, capita anche agli adulti. Insomma. Etienne vide dalla finestra della sua cameretta un camion di una ditta di traslochi. Un appartamento del palazzo di fronte al suo aveva nuovi inquilini. Boom! Sul terrazzo vide una donna. Non particolarmente bella ma con un seno da infarto. Fu amore a prima vista. La spiò per un paio di giorni. Con il cannocchiale vedeva che in casa, ogni tanto, compariva un uomo con i capelli brizzolati e un’aria sempre triste e sospirosa.
Fu un attimo. Appena vide andare via l’uomo si precipitò giù per le scale, attraversò la strada, entrò nel portone e su per le scale verso la porta dove dietro c’era il suo nuovo amore che lo faceva impazzire.
Dindon.
La donna aprì la porta e si ritrovò davanti l’uomo brizzolato. Etienne, inesperto, ci provò subito.
“Papààà!” urlò la donna.
In quel preciso istante un’altra donna entrò in casa.
“Claudette! Maurice!”
Claudette conviveva con Jolanda. Che percosse pesantemente Maurice. Etienne non lo vide più entrare in quella casa.

“Ti prego, ti prego, ti prego. Lo fai? Ti prego, ti prego, ti...”
“E basta, Alain! Mi sono scocciato di fare sempre Marilyn Monroe. E poi tu fai quelle cose lì davanti a me. No. Non divento più nessuno. Oh!”
“E io non ti passo più le risposte ai compiti in classe.”

La vita di Etienne continuò, invitato ai party, a inaugurare boutique e via dicendo. Era il sosia più pagato e conosciuto al mondo.
Ovvio che, dopo un po’, si stancò di quella vita. Voleva emozioni, gioia e lacrime.
Con i tantissimi soldi guadagnati, aprì una casa di riposo. ‘Revenant’. Questo nome troneggiava sul cancello di una splendida villa liberty, circondata da un parco di 8 ettari.
Per sé aveva tenuto un unico compito. Quello di selezionare gli ospiti, non in base al reddito ma ai ricordi.
Sottoponeva gli anziani a un interrogatorio durissimo. Alla fine, accettava solo vedovi e vedove che avevano realmente amato il proprio partner.
Le 24 camere furono assegnate.

“Stasera chi volete come ospite a cena?” chiese Etienne, sorridendo ai 24 anziani.
“Spencer Tracy” disse Margot.
“A me non piace” sentenziò Anna.
“Col cavolo! Stasera ci sarà Marlene Dietrich” abbaiò Bruno.
“Sei il solito nazista. Io voglio Rosa Luxemburg.”
“No. Io voglio Lenin.”
“E allora io Mao!”
“Kennedy.”
“No. Napoleone.”
Etienne richiamò l’attenzione. “Vedo che oggi siamo sul politico. Se non la piantate, vi faccio cenare con Hitler.”
Nel salone scese il silenzio.
“Le regole le conoscete, solo attori o cantanti. Forza, tirate fuori un nome.”
Ricominciò la litania di nomi morti e sepolti da secoli.
“Edith Piaf!”
“Caruso.”
“Ehi, Belcanto, hai rotto. Tutte le sere vorresti quel trombone! Non hai fantasia. Io stasera voglio Farinelli.”
Il salone si riempì di risatine.
“Simile chiama simile. Hi hi hi...”
“Hei, vecchia ciabatta, qualche volta ci penso io a te. Dovrai dire basta! Ecco.”
“Basta lo dico io. Ma è possibile... Stasera avremo Frank Sinatra” annunciò trionfalmente Etienne.
“Nooo. My way, nooo. Basta con My wayyyy!”

Questo per i dopocena. Ma durante le giornate, Etienne si dedicava completamente ai 24 anziani.
Si chiudeva in una stanza con uno di loro, uno al giorno, per diventare il defunto marito o la moglie di questi. Niente sesso. Solo belle chiacchierate.

E venne il giorno della morte di Etienne.
Davanti ai miei occhi. Era il mio turno ed ero con la mia adorata Claire. Etienne, non so perché, quando diventava mia moglie, era sempre con l’abito da sposa. Forse perché tra le foto di Claire che gli mostrai, lui rimase colpito da quelle scattate nel giorno delle mie nozze. Comunque, io e lei stavamo parlando di una gita di molti anni prima. Improvvisamente Etienne diventò Mae West. Con la voce di Charles Trintignant. In un secondo cambiò aspetto migliaia di volte. Non feci neanche in tempo a chiedere aiuto, che lui diventò un hot dog. E così rimase.

L’idea di fare il funerale a un hot dog ci fece scompisciare dal ridere. Ma eravamo anche profondamente desolati. Non perché non avremmo più rivisto le nostre mogli o mariti, tanto sapevamo che non erano loro, ma perché Etienne ci sarebbe mancato. E tanto, tantissimo.
Questa è stata la sua vita. Valeva la pena di raccontarla.


LT 20 05 08

sabato 9 agosto 2014

Ombre


Il vento lacerante accecante
vortica come un bicchiere nel vuoto

ho tagli sulla pelle
ferite che attendono il sale

una guerra per nessuna patria
è il mio grido dalla nudità degli anni

l'avvenire non ha inverni da rinfacciarsi
senza timore ombreggia nel luogo convenuto

il mio peso non conosce l'inganno della pupilla sbarrata
non ho pupille da ricordare per il loro passato colore

sono qui, altrove, ovunque
non ho beatitudini da edificare.

La montagna del volo mai fatto


A cosa servono le cicale
se basterebbe un tuo bacio
a ricordarmi che l'estate
è la stagione del silenzio del mare?
A cosa serve un bacio sperato
se una tua mano strangola la mia anima                          ancora
che vaga silenziosa nella trasmutazione
di quello che potremmo essere in due                             ancora?
A cosa serve l'amore, amore mio
se una montagna aspetta il nostro volo                            ancora
verso una scia chimica
che bucava i nostri occhi?
Dimmelo tu, ripetilo                                                         ancora
gridamelo, rinfaccialo, sussurralo
in questi occhi masochisti.

I ricordi hanno l'appetito famelico
si cibano di attimi parossistici.

venerdì 2 marzo 2012

Il sangue di Latina



Ho sognato una città.
Che sogno, ragazzi!
E’ pazzesco quello che il cervello può permettersi. Peccato che dia il meglio di sé, solo quando stiamo dormendo.
Per pura curiosità, ho aperto il dizionario dei sinonimi e contrari e questo è quanto:
Sogno, sm visione - allucinazione. FIG. illusione, - fantasia -utopia - chimera - progetto - aspirazione - fantasticheria - ideale - speranza. CONTR. realtà.
Capito?
Io ho sognato e poi scopro che ho potuto sognare anche molto altro ancora.
Allora mi chiedo: tutta quella roba scritta sul dizionario, si adatta al mio sogno ed anche alla mia città?
Che cos’è Latina se non un sogno sognato un po’ di anni fa?
Il mio filmetto onirico iniziava con una donna che mi inseguiva su una bicicletta, una di quelle con il cestello attaccato al manubrio, mentre io correvo verso il mare. Lei urlava delle frasi in una lingua che non capivo. Io correvo e lei mi inseguiva. Correvo e mi inseguiva. Si avvicinava.
Una radice di pino sul marciapiede, che non avevo visto, mi fece cadere. E lei frenò con i tacchi, ad un centimetro dalla mia faccia.
“I Tespi! I Tespi! I Tespiiiiiiiiii!” urlò.
“I tespi?” dissi, alzandomi da terra.
“I Carri dei Tespi!”
Sorridendo, mise una mano nella tasca del grembiule e tirò fuori una foto molto malridotta.
“I Tespi sono questi!” disse mostrandomi la foto.
Non si capiva un granché. Si vedeva un sacco di gente vestita strana, su un carro.
“E allora? Che cosa sono i tespi?” dissi.
“Ignorante! Vedi di colmare la lacuna! Informati, chiedi in giro! Ignorante!”
La donna gettò via la foto e ne prese un’altra, sempre dalla stessa tasca.
“Questa è la torre medievale che era dove ora c’è il Circolo Cittadino, in Piazza del Popolo. Tieni, te la regalo” mi disse.
Una torre medievale? A Latina? Ma...
“E perché l’hanno buttata giù?” le chiesi guardando la foto.
La donna agitò una mano, come a dire: si, va be’.
“Ma perché era vecchia!Immagina tu che scena: un rudere in una piazza nuova di zecca, in una città nuova di zecca. Te lo immagini?”
Mi immaginai la scena. Sarebbe stato magnifico.
“Ma tu la sai la storia del camion e del gatto?” mi domandò sorridendo.
“Mi sa tanto che mi trovi un po’ impreparato.”
La donna scese dalla bicicletta.
“Ah!” urlò a pieni polmoni. “Ma dove sei nato, tu?” chiese puntandomi l’indice in faccia.
“A Latina.”
“E allora perché non conosci la storia del camion e del gatto? E’ l’unica leggenda che abbiamo, qui.”
Che Latina avesse una leggenda mi giungeva nuovo. Sarà che io non amo molto la mia città, anche se ci sono nato ma poi a 3 anni sono andato ad abitare a Fondi, fino ai 13. E poi sono tornato ad abitare a Latina e mi sono...
“La leggenda è questa: mancava pochissimo tempo all’inaugurazione di Piazza del Popolo e quindi di Littoria. Mussolini sarebbe arrivato tra poco. Nella piazza c’era un casino pazzesco e da una parte c’era ancora un buco. Presto, si deve riempire quel buco!, urlò qualcuno. Non avrebbero mai fatto in tempo. Mussolini era vicinissimo. Ed ecco allora l’idea. Buttateci dentro quel camion!, ordinò uno. Ma dentro c’è un gattino, l’ho visto che era lì. Me ne frego! Buttate dentro il camion! Il gattino si era nascosto dentro la cabina. Non si trovava. Insomma... Il camion finì nel buco, fu ricoperto di terra e amen. Pare che sia vero.” La donna si fece il segno della croce.
Mah..., pensai.
“Guarda!” disse imperiosamente la donna.
Guardai la foto che mi aveva messo sotto il naso. Mussolini sudato, a torso nudo, che trebbiava di buona lena.
Oddio! Vista e rivista. Possibile che questa città non pos...
“Lo sai chi è?”
“Il Duce che ci dà la luce?” risposi.
“Fai lo spiritoso?”
“Sì.”
Cominciò a piovere e la donna tirò fuori da una tasca un foulard e se lo mise in testa, legandoselo sotto al mento.
“Lo sai che quando c’era Lui i treni viaggiavano in orario?”
Lì mi incazzai.
“Poteva fare il capostazione, allora!” risposi con la celebre battuta di Troisi.
“Continui a fare lo spiritoso?”
La pioggia diventò una specie di uragano.
“Hai visto? Gli eucalipti che aveva fatto piantare Lui li stanno tagliando tutti. E’ questo il risultato: meno frangivento=più vento.”
“E tu non ti ribelli?” le domandai.
“Non me ne frega niente.”
Improvvisamente, davanti a noi si abbattè un deltaplanista, arrivato chissà da dove.
“Cazzo! Uno non può neanche volare tranquillo. Che uragano!” disse alzandosi da terra.
Il suo deltaplano si era completamente sfasciato nell’impatto. L’uomo si tolse il casco, si liberò dall’imbracatura e se ne andò, lasciando lì i rottami.
“Senti”, mi disse la donna, con le mani ai fianchi, “ma tu la ami Latina, la tua città?”
“Non me ne frega niente di amarla” le risposi.
“E perché?”
“Perché è provinciale, perché non cambierà mai, perché non fa niente per la cultura, perché addormenta i cervelli. Ma soprattutto perché è una città che guarda solo al passato. Ti basta?”
“Ecco. Il passato. Guarda.” Sempre dalla solita tasca del grembiule, tirò fuori un’altra foto.
Una casa colonica. Davanti alla porta d’ingresso si vedeva una famiglia di 9 persone. Le loro facce sembravano tristi ma avevano uno sguardo fiero. Tutti erano vestiti a festa. Non so come ma la foto gridava ‘ce l’abbiamo fatta!’.
“E’ una famiglia di Rovigo” mi disse la donna. “Ora guarda quest’altro scatto.”
La palude. Acqua, acqua e acqua, alberi millenari, un senso di incredibile forza e desolazione insieme.
“Ancora un’altra” mi disse.
Una fila interminabile di persone con delle valigie o dei sacchi sulle spalle, che va verso una direzione.
“E’ la stazione di Cisterna. Sono tutti coloni con le loro famiglie, appena scesi dal treno. Da lì, li porteranno verso il pezzo di terra con la casa colonica che gli hanno assegnato. Un’altra.”
Buoi che trainano carri pieni di spighe.
“Un’altra.”
Uomini con cinturoni, pistole e cartucce.
“Questo serviva per tenere a bada evasi, pregiudicati ed altri avanzi di galera che venivano a lavorare nella palude, per scomparire dalla società. E la malaria, ogni tanto, se li portava via.”
La malaria... Quanti ne sono morti a causa sua?
“Ah! Stai pensando alla malaria. I morti, a causa sua, sono stati migliaia. Migliaia. Non posso essere più precisa, mi dispiace. Però, tieni conto che i medici erano i professionisti più numerosi a Littoria. Comunque la malaria c’era e ne uccideva tanti.”
“Lo so benissimo. Ma non puoi chiamarla Latina, invece che Littoria? E basta! Sempre con il passato, con Mussolini, la palude, la bonifica... Ho tutto il rispetto per le persone che sono venute qui ed hanno lavorato per prosciugarla la palude, per i morti di malaria ma... Guardare avanti, no? Esiste solo il passato?” urlai.
“Perché ti scaldi tanto? Anche tu sei questa città, anche tu sei un prodotto della palude.”
Aveva smesso di piovere in un decimo di secondo.
La donna si tolse il foulard bagnato e lo gettò a qualche metro di distanza.
“La retorica mi piace tanto. E’ la cosa che amo di più. Littoria... Va bene, va bene... Latina è stata sacrificio, scommessa e tanto altro. Ascolta... Te la sentiresti di fare una cosa pazzesca? Una di quelle che poi ti fanno sentire un uomo stupidamente felice?” La donna battè le mani gioiosamente. “Vorresti aiutarmi a fare una cosa di cui ci pentiremo subito dopo?”
Un piccione volò sopra di noi e defecò sulla mia testa.
Non sono superstizioso ma questa cosa mi sembrava vagamente profetica.
“Come ti chiami?” chiesi alla donna.
“Io?”
“E chi, sennò?”
Unì le mani come per pregare.
“Vedi, io ho mille nomi. Anna, Milena, Caterina, Francesca, Maria, Agata, Claudia, Marisa, Enza, Agnese,  Stefania, Eva, Lydia, Patrizia, Assunta, Simona, Clara, Paola, Giorgia, Giovanna, Diana... Vuoi che continui?”
Sono sicuro che mi avrebbe snocciolato altri mille nomi.
“Allora ti chiamerò Littoria. Contenta?”
“No.”
“Perché?”
“Il perché è semplice: mi chiamo come voglio chiamarmi.”
Mah...
Non so come, ma mi ritrovai seduto sulla palla di marmo della fontana di Piazza del Popolo. La donna che si chiamava come voleva chiamarsi, era seduta su una delle panchine di marmo, davanti a me. In mano aveva delle candele un po’ più grandi del normale e sulla bocca aveva un sorriso vagamente folle.
Si alzò lentamente e cominciò a danzare, passandosi le candele da una mano all’altra. Nella piazza non c’era nessuno. Però non era quella che conoscevo. O meglio... Era Piazza del Popolo, ma non quella di oggi. Dalla palla su cui ero seduto, vedevo che il palazzo dove ora c’è Benetton e prima ancora La Standa, mancava. Al suo posto, invece, una cosa bassa bassa con su scritto ‘Cinema dell’Aquila’. Tutto era diverso. Il Palazzo del comune c’era, il Circolo Cittadino c’era... ma mancava troppo. E tutto aveva un non so che di nuovo, di appena costruito. 
In un battito di ciglia la piazza ridiventò quella che conoscevo, con Benetton e tutto il resto. Subito dopo era un caos dove molti uomini lavoravano per tirare su la torre del Comune. Poi vedevo, in lontananza nelle vie che partono da Piazza del Popolo, costruzioni che crescevano a vista d’occhio. In un istante, ero a mollo nella fontana perché la palla di marmo mi aveva disarcionato e questa cominciò a rotolare qua e là, distruggendo tutto quello che incontrava davanti a sé.
Altro che i film di Spielberg.
Mi ritrovai a cavalcare la palla, verso il lago di Fogliano. Arrivati lì, insieme abbattemmo un bel po’ di alberi, schiacciammo qualche papera e tornammo indietro, riducendo a macerie via Isonzo e quindi rotolammo di nuovo  in Piazza del Popolo, dove il globo di marmo si risistemò buono buono al centro della fontana.
Con un certo stordimento, mi avvicinai alla donna che si chiamava come voleva chiamarsi.
“Si può sapere chi cazzo sei?”
“Se ti dico Circe ti accontenti?”
“No.”
“Senti... Mi sembra che tu ami Latina alla follia ma te ne vergogni.”
“Ma vaffan...”
“Appunto. Tu sei le vene di questa città. Tu, te lo ripeto, sei le vene di questa città.”
Le vene? Le veneeeeee? Uauh! Nessuno me l’aveva mai messa così! Abito in una città e sono le sue vene? E allora il suo sangue che cos’è?
La donna poggiò a terra le candele e cominciò ad applaudire. Nel tempo che mi occorse per battere le ciglia, me la ritrovai davanti, vestita da piccola italiana. Con un fascio di spighe di grano, che cominciò a gettare una ad una, come Wanda Osiris.
Lentamente, si chinò per raccogliere le grosse candele e le mise tra le spighe.
La piazza fu invasa dalle note di Faccetta nera.
La donna cominciò a camminare sculettando e ogni tanto gettava qualche spiga ed una candela. Qua e là.
Arrivata in quello spazio squallido e vuoto della piazza dove non c’è niente, ricoperto di sampietrini, gettò tutto intorno a sé le ultime spighe e le ultime candele.
Faccetta nera, finalmente, esalò le ultime note.
La donna si inchinò teatralmente.
Mica si aspettava da me un applauso?
“Hai un accendino?” mi chiese vestita di nuovo da contadina.
“Sì. Ma... perché?”
“Non vuoi sapere cos’è il sangue di Latina?”
Sapevo già che mi leggeva nel pensiero, quindi non mi stupii più di tanto.
“Non è che me ne freghi un granché. Comunque, cos’è il sangue di Latina?”
“Dammi l’accendino e lo saprai.”
La curiosità prevalse. Con molta nonchalance tirai fuori l’accendino dalla tasca e glielo diedi.
“Lo immaginavo. Un Bic. Rosso.”
“Ti aspettavi un Dupont d’oro?”
“No. Perfettamente in linea con il tuo comunismo d’accatto. E inutile a Latina.”
La prendo a schiaffi sull’istante?
“Comunque, la fiamma la fa lo stesso. E prova a picchiarmi” mi rispose accendendo più volte il Bic rosso.
Si accovacciò e diede fuoco agli stoppini delle grosse candele. Visto che c’era, fece lo stesso con alcune spighe.
“Ripariamoci!” urlò, correndo verso i portici del comune.
Qualcosa mi diceva che dovevo seguirla. E di corsa.
Dopo neanche tre secondi che eravamo al riparo, una ventina di esplosioni squassò la piazza.
Le orecchie non...
“Ma che cazzo hai fatto!” urlai alla donna che si chiamava come voleva chiamarsi.
“Ora vedrai il sangue di Latina. LITTORIA!” urlò.
Cominciò a correre verso il cratere aperto nella piazza.
La donna era vestita molto elegantemente in Gucci, Ferrè o Armani. O Valentino. Boh... Comunque era elegantissima, anche se continuava ad urlare ‘LITTORIA!’.
Io, che ero le vene della mia città, la seguii per vedere questo mitico sangue di Latina.
Arrivammo al bordo dell’enorme buco. Aveva un diametro di almeno 20 metri ed una profondità di circa 4.
La donna si sporse per vedere meglio.
“Porca puttana! Mi sa che il T4 era troppo” disse.
“Il T4?”
“L’esplosivo. Quello che ho usato per fare ‘sto casino. Ne dovevo mettere meno...” mi rispose pensierosa.
“Beh... è un bel buco, però” dissi.
“Si, è vero. Però il sangue di Latina non c’è più.”
“Potrei sapere cosa cazzo è questo sangue di Latina?”
“Devo essere sincera?”
“Lo apprezzerei molto” risposi.
Nel frattempo aveva cambiato ancora abbigliamento. Ora era una specie di Cenerentola scarmigliata.
“Guarda!!!” gridò indicandomi un punto, quasi in fondo al cratere.
Guardai dove lei indicava con il dito puntato. La terra si muoveva. Molto lentamente ma si muoveva. Ad un certo punto sembrò come ribollire.
La donna cominciò a saltare, a ballare e ad applaudire. Ora era in bikini e zeppe altissime ai piedi.
“Lo sapevooooooo! Lo sapevoooooooooooooo! Guarda, quello è il sangue di Latina!!!”
Dal fondo del cratere udii un suono debolissimo. Mi inginocchiai per essere un po’ più vicino al fondo. Il suono era debole, molto flebile.
Improvvisamente, io e la donna ci ritrovammo giù nel buco.
Lei era vestita da esploratrice, con sahariana, cappello e tutto il resto, compresa una piccola piccozza.
“Ti presento il sangue di Latina!” mi disse trionfalmente. La vidi trasformarsi lentamente in regina, con tanto di corona e scettro.
La terra si mosse ancora. E finalmente udii chiaramente il suono.
“Miao... miao...”
Un gattino multicolor sbucò dalla terra.
Sopra di noi, nella piazza, un camion tossicchiò. Due, tre affondate di acceleratore e partì.

Mi svegliai perché Ciro, il mio gatto, mi leccava insistentemente una mano. Voleva mangiare.

Latina, 2006
 
Pubblicato nel 2006 nell'antologia 'Racconto Latina', Ego Book edizioni.

lunedì 13 febbraio 2012

Chilometri di addii

Se tu fossi restata
in questa casa si sarebbe solo urlato.
O avremmo tirato fuori i coltelli più belli.
Rotaie per te.

giovedì 29 dicembre 2011

Beatles forever

Priverno 22 agosto 1966

Cara Mary.
Devo raccontarti una cosa incredibile! Ieri sera ho ballato lo Shake con Jim!!! Lui mi ha prima guardato per un’ora e poi si è avvicinato e mi ha invitata a ballare!!! Ci pensi? Io che ballo lo Shake con Jim!!!!!! Tu sai che io lo amo!!! Se ti dico che mi ha baciata mi credi? A proposito di baci: lo sai che 2 giorni fa ho visto Mark!!! Lo sai che mi ha chiesto di TE!!!!!!
Secondo me è innamorato cotto di te!!! Perché non provi a baciarlo la prossima volta che lo vedi? E poi ho visto anche U. Lo sai che mi ha detto che vuole mettere una butic come quella del Piper Market dove si vendono quei bellissimi vestiti? Magari!!!!!
Ora ti devo salutare perché mamma mi sta urlando che devo aiutarla a pelare le patate!
Che rompi queste mamme!!!!!
W i Beatles!



Fondi 31 agosto 1966

Cara Polly.
Ieri ho ricevuto la tua lettera e non l’ho fatta vedere a nessuno! Queste nostre corrispondenze devono rimanere segrete!!! Tu mi hai detto che hai baciato Jim!!! Ma non mi hai detto che cosa hai provato!!! Non è che non è vero? Ancora per qualche giorno andrò al mare a Sperlonga dove ci sono un sacco di boni. Lo sai che domenica prossima vado a Maenza con la mia comitiva? Perché non vieni anche Tu? F. mi ha chiesto di te!!!!
Ho preso al negozio di mamma un paio di stivali neri a calza. Devi vedere come mi stanno bene!!!!  Oggi piove. Lo sai che dopo Ferragosto piove sempre! Ti salutano M. F. D. e S.!
Non vedo l’ora che sia il 24 ottobre! E tu sai perché!!!!!
W i Beatles!!!!

P.S: Non è vero che Ringo ha un cane viola. Si può sapere dove l’hai letto?
Ciao!!! Scrivi presto. Scrivi prestooooooo!!!

Mary



Priverno 16 settembre 1966

Cara Mary
ho saputo che Mark si è fidanzato... Ecco perché non ti ho scritto per tutti questi giorni. E lo sai con chi si è fidanzato? Con TILLA! E lo sai dove? Alla festa di P.!!!! Quello se ne pentirà che non si è fidanzato con TE!!! Però gli ho detto che anche tu ti sei fidanzata! Così si impara!!!
E poi ho un’altra cosa da dirti: reggiti forte! Ho conosciuto Edoardo Vianello!!!!!!!!!!
a Roccagorga quando è venuto per la festa in piazza. Lui prima ha guardato zia Nessy e poi a me dal palco mentre cantava e poi ci ha salutate. Ci pensi? Poi io e zia Nessy eravamo sedute al bar e lui è passato e zia si è alzata per salutarlo. E lui ha detto: Buonasera! Non è incredibile? Però zia Nessy non gli ha detto niente!
Lo sai che Lolly andrà a scuola a Roma a ottobre? A ROMA!!!!
Beata LEI! ciao ciao ciao ciao ciao
SCRIVI PRESTO!!

Polly



Fondi 27 settembre 1967

ciao Polly
oggi abbiamo ricevuto un pacco di zio Carlino dall’America. E lo sai che cosa c’era dentro? Un sacco di vestiti!!! E poi anche delle caramelle alla cinnamom che sono stranissime. I vestiti sono americani veri!!!!!! Per me ha mandato una giacca rossa che è uguale a quella di un’attrice che non ricordo il nome e nemmeno il film. Comunque è quella! E poi ci ha mandato anche un po’ di dischi ma sono tutti di musica per matusa. Zio Carlino mi aspetta in America a New York quando voglio!!!!  E forse ci andrò l’anno prossimo. IO in AMERICA!  ci PENSI???
Ciao!

P.S: a Sperlonga ho conosciuto un ragazzo che ha conosciuto un ragazzo che ha conosciuto i Beatles e mi ha detto che sono molto stanchi di essere famosi. Ma chi può essere stanco di essere famoso? Io NO!!!

Mary



Priverno, 25 aprile 1976

Cara Maria,
sì, lo so che non ci scriviamo da anni. Ma qui tutto scorre lentamente. Questo paese mi ha rotto, veramente. Se ci riesco, vedo di andare a vivere in un’altra città. Con il mio diploma di puericultrice non dovrebbe essere difficile trovare un lavoro. Lo sai che Franco è drogato? Chi l’avrebbe mai detto? Proprio lui che è (o era) il ritratto della salute? Umberto ha aperto una boutique anche a Latina e sembra che gli vada bene.
Sei andata in America, poi?
Io sono ancora iscritta all’UZI. Ricordi? Unione Zitelle Italiane. L’idea dell’UZI era venuta a Gianna che non riusciva a sposare nessuno. Però lei, poi, si è sposata!
Non so perché ti sto scrivendo. Ma so una cosa: teniamoci in contatto, scrivimi. Ne ho bisogno, ora più che mai. Lo sai che Marco si è diviso? Probabilmente sì.
E lo sai perché? Perché ha un’amante!!!! Lo vedi? Il mio antico (e tuo) vizio di mettere punti esclamativi esageratamente tanti non morirà mai. Risponderai a questa lettera?

P.S.: Hai visto che i Beatles si sono sciolti, alla fine?

Polidora



Latina, 3 maggio 1976

cara Polly (scusa, ma non riesco a chiamarti Polidora!!!) La tua lettera mi ha sorpresa. E non poco. Come vedi, e come evidentemente sai, ti scrivo da Latina. Abbiamo traslocato qui, da Fondi, il 23 agosto del ‘73. Mi credi se ti dico che è tutta un’altra vita? A proposito: reggiti forte! Lo sai che lavoro in una Radio???? IO che vengo ascoltata da migliaia di persone! Ci pensi? E’ Incredibile! Cosa significa che dobbiamo tenerci in contatto “ora più che mai”? Non sembra una bella frase.
E poi: perché dici che scrivi da Priverno se poi il timbro sulla busta è di Roma? E così, sei ancora iscritta all’UZI. Beh, anch’io.
E allora? Che, per caso, ci manca un uomo? Ne troviamo a milioni noi! Solo che loro non trovano noi!!!!!! Ecco il problema.
Come vedi ti ho scritto. Ma al tuo vecchio indirizzo di Priverno. Non è che puoi mandarmi quello di Roma?
ciao

Maria

P.S.: dopo tanti anni, devo dire che i Beatles me li immaginavo eterni!

Ciao.



Priverno 8 dicembre 1980

Cara Mary
E’ appena successo John Lennon è morto Ho sentito la notizia alla radio Un folle l’ha ucciso
Ce l’ha ucciso
non voglio usare né punti e né punti esclamativi Questo è quello che faccio per John
Ricorda le nostre estati Beatlesiane Ore ed ore ad ascoltarli Ore ed ore a decidere chi era il più bono fra loro 4 Ore ed ore a decidere su quale fosse la la loro canzone più bella tra Ticket to ride e Help Ora è tutto finito Manca Lui per legarci  Il mio nuovo indirizzo non te lo posso dare Io non sono più dell’UZI
Ti chiedo solo una cosa non scrivermi più
Ciao



Latina, 24 dicembre 1980

TU mi dici di non scriverti più! Ma sei stata tu a ripresentarti dopo anni!
Lo sai, nel frattempo, cosa è successo? Mia sorella è morta. E tu non c’eri al suo funerale. Tu, che non usi i punti ed i punti esclamativi per la morte di Lennon. Ed io, cosa dovrei fare? Non mettermi più scarpe blu? O non mangiare più liquirizia? Perché non sei venuta al funerale? Tu eri sua cugina. La vita non è bella. E’ troppa, per essere vissuta in una volta sola.
Ti chiedo io, ora, una cosa: visto che il tempo passa, scorre, non farmi ricordare il periodo in cui eravamo imbecilli e spensierate. Non mi serve farlo.
E pensa un po’: non mi interessa che non sei più dell’UZI.
Comunque, ti accontento. Non ti scriverò più, anche perché non avrei niente da dirti.
Il tempo passa, Polidora, passa.

Maria



Priverno, 12 settembre 1985

Cara Maria
Ti giuro che non ho saputo niente. Appena ho letto che Nina era morta... Dio, che tragedia.
Tu non puoi sapere come sono stata male, credimi. Vi sono vicina da appena... ma cosa posso scrivere per esprimere il mio lutto? La tua lettera dell’‘80 è stata dura da digerire. Ed hai tutto il diritto di odiarmi. Come vedi ci ho messo 5 anni per decidere a scriverti di nuovo. Io lo so che il tempo passa. Ma per me passa ancora più lentamente. Credimi.
So che tutto ciò che leggerai ti sembreranno sciocchezze (ma non so, veramente, come farmi sentire vicina a voi.) Non sono più dell’UZI perché, ovviamente, mi sono sposata. Non voglio dirti quando, come, perché e, soprattutto, con chi. Il motivo è semplice: nessuno lo sa. Tutti pensano che io viva in Australia, da single. E’ questo, e solo questo, che tutti devono sapere.
A te lo dico: vivo a Roma. Solo tu lo sai! Non tradirmi!!! Anche perché faccio letteralmente i salti mortali, per far partire da quel continente lontanissimo le lettere per tutti gli altri. Nemmeno mamma e papà conoscono la verità. Mi hai scritto che la vita è troppa per essere vissuta. Di solito mi incazzo con me stessa per accettare troppe cose, dalla vita.
Oggi ho voglia di tornare imbecille e spensierata!!! Lo sai che mio marito, quando va via da casa, mette della farina a terra sul pianerottolo, così al suo ritorno vede subito se io sono uscita? Lui firma la farina davanti la porta di casa! Ed è praticamente impossibile imitarla!!!!!!!!!

W i BEATLES!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Polidora



Latina, 19 settembre 1985

Cara Polly

ho appena ricevuto la tua lettera. Non è possibile, non ci credo. Tuo marito firma la farina davanti al vostro pianerottolo? E TU non esci perché lui fa questo? Non so se sono una deficiente che ingigantisce le cose ma... tu hai bisogno di aiuto. Io ti conosco, cara cugina.
Se mi hai scritto della farina, quello è il male minore. Giusto? Lui ti picchia? Tu sai che Nina si è suicidata. E sai anche perché. Devo ricordarti che l’ha fatto per un amore sbagliato?
O meglio: perché ha incontrato un maledetto che le costruito un castello davanti gli occhi e poi l’ha demolito in un secondo. Non è che anche tu abiti in un castello?
Non sparire per altri 5 anni! Rispondimi subito.

Maria

P.S. : W NOI STESSI!!!!!! (Io non riesco ad odiare, ora più che mai!)
P.P.S. : Posso sapere come fai a ricevere le mie lettere, che spedisco a Priverno, se poi vivi in Australia??? (O, meglio, a Roma?)



Priverno, 5 novembre 1985

Cara Mary (mi piace ricordare il passato e quindi voglio continuare a chiamarti cosi!!!)
mio marito ha trovato le tue lettere ma me le ha lasciate tenere. Sul corpo ho ancora i segni. Ma non mi fanno male (ci sono abituata): quello che mi fa veramente male è come lui mi ha chiamata, stavolta: puttana figliatrice. E va bene! La mia sudditanza è totale. Abito in un castello. In quel tipo di castello e non mi piace. Ma cosa posso fare se il castellano mi tiene reclusa lì dentro? IO capisco quello che ha fatto Nina. (Sono sincera: a Luca lo ammazzerei con le mie mani, se potessi.) Ma perché devo ucciderlo se poi è lui l’assassino? Come vedi sono parecchio contorta ultimamente. Sarà perché 4 figli crescono con me senza uscire mai da casa, senza mai prendere un po’ di sole? Luca è pazzo.
Dopo tanti anni riesco a vedere la verità. Lui è pazzo. E non sai quanto mi costa ammettere questo. Ho sbagliato tutto. Perché sono un’imbecille, ecco la cruda realtà.
Luca sta rientrando.
Ciao.



Priverno, 7 aprile 2001

Cara Mary
finalmente è nato Giulio.
Questa gravidanza mi è costata parecchio ma sono molto contenta. 5 figli non sono uno scherzo. Lo sai che in casa mia non ci sono penne o matite? Ti starai chiedendo: e questa lettera, come l’scritta, con il sangue? Sì. Stuzzicadenti e sangue. Ecco perché ha quel bel colore seppia, così introvabile. Luca requisisce tutto ciò che può scrivere, anche ai ragazzi, dopo che hanno fatto i compiti. Un po’ di pugni sulla faccia, producono un bel po’ di inchiostro, come vedi. Ora è il momento che ti sveli un segreto.
E’ Luca che imbuca la posta per me, visto che non posso uscire. Dopo averla letta, ovviamente. A lui non importa che tu sia al scorrente di tutto. Di te si fida. L’inchiostro è quasi terminato, fortunatamente. Uscirò da questo castello. E nel modo che conosci.
W I BEATLES!!!!!

Polly

giovedì 1 dicembre 2011

Natale in un interno

“Poi come è andata a finire la storia con Margaret?”
Mia madre crede che io stia ancora con Margaret, uno dei miei flirt scolastici. Parlo di anni luce fa, di quando avevo i capelli lunghi ed andavo in giro con quelle orrende camicie a fiori. Del periodo in cui si gridava ‘fate l’amore non fate la guerra’.
“Mamma, Margaret è morta e sepolta.”
“Ma come è successo? Non ho saputo niente... ma dico! Perdi la tua ragazza in un incidente e non me lo dici?”
Questo Natale sarà all’insegna del rimprovero a gogò.
“Non ho detto che è morta, ho detto che è storia sepolta” 
“Lo vedi? Lo stai dicendo, l’hai appena detto. Margaret è morta!”
“Va bene. Tregua. Visto che devo rimanere tre giorni con te, potremmo parlare di altro?”
“Tratti così, tua madre? Devi? Devi? Pensavo che saresti stato contento di passare il Natale con la mamma.”
“Ok. Sono contento. Quando arriva Ally?”
“Tua sorella mi fa mai sapere qualcosa? Arriverà. Prendimi il barattolo del sale, ché non ci arrivo.”
“Ma perché lo tieni così in alto?”
“Questa è casa mia e faccio come mi pare!”
“Lo sai che stai bene con i capelli corti? Ti ringiovaniscono.”
“Ho capito la tua allusione, sai? Mi stai dicendo che sono vecchia. Se vuoi andare via, quella è la porta.”
“Mamma.”
“Non venite mai a trovarmi tu e Ally. Perché? Vi costa così tanto farmi una visitina giornaliera?”
“Abito a 3000 chilometri da qui.”
“Non significa niente. La verità è che vi vergognate di vostra madre.”
“Ah. E perché?”
Con decisione, comincia a torturare con il coltello le cipolle ed il sedano.
“Appena verrà tua sorella, lo saprai.”
“Mamma. Perché dici queste cose?”
“Vado a cambiarmi, stai attento ai fornelli.”
Per fronteggiare questa assurda situazione mi attacco alla bottiglia. Mia madre dice che noi ci vergognamo di lei. Mai. Mai. E’ una donna stramba, questo sì. Il saltare di palo in frasca è la sua specialità agonistica. La conosco. Eccome. Se aspetta anche Ally per dire qualcosa, ci sparerà una bomba sul viso.

“Iuuuhuuuu! Sono arrivata.”

Ally. Non è una sorella ma un boxeur inferocito, pronto a combattere anche con Dio.
“Mamma! Stronzo! Sono qui. Sei già arrivato, debosciato?”
La mia dolce, cara, amata sorellina.

“Ally, passami l’insalata. E tu mangia lentamente, altrimenti ti torna l’ulcera.”

Mai avuto l’ulcera in vita mia.
“Sapevi che Margaret, la ragazza di tuo fratello, è morta? Sono sicura che a te l’ha detto.”
“Ma chi, quella culona che ti faceva sbavare come una lumaca?”
“Ma non è morta! E’ mamma, che insiste nel dire che è morta.”
“E come sarebbe morta?”
“Ally, non ti ci mettere anche tu. Per favore.”
Mamma richiama la nostra attenzione.
“E’ arrivato il momento di vuotare il sacco” ci dice con uno sguardo di rimprovero.
“Quale sacco?” chiede Ally.
“Dice che ci vergognamo di lei. Tu sai perché?” chiedo a mia sorella.
“Non so minimamente di cosa stia parlando.”
“La finzione che vedo nei vostri occhi è ancora più offensiva! Solo perché ho avuto un piccolo cedimento, vengo condannata a morte. Non me l’aspettavo. Da voi proprio non me l’aspettavo...”
“Mamma. Ma di cosa stai parlando?”
“Cos’hai combinato?” le chiede Ally.
“Ditemelo chiaramente: ci vergognamo di te.”
“Ma per cosa?” gridiamo in coro.
Mamma si alza di scatto dalla sedia e corre a chiudersi a chiave in camera da letto.
Ally mi guarda interrogativa. Andiamo fino alla porta della camera.
“Ci fai entrare? Parliamone. Noi non ci vergognamo di te, vero Ally?”
“E’ vero. Ma come ti è venuta quest’idea?”
“Bugiardi. Andate via.”
“Apri la porta, mamma” dice Ally.
“Andate via.”
Mia sorella comincia a tempestare di pugni la porta.
“Apri! Apri e dicci cosa hai combinato!”
“Mi hanno beccata a fare sesso in macchina con il postino!”
Qualche secondo per assimilare mentalmente queste parole.
“Cosa?”
“Avete capito benissimo.”
“Ma almeno ha suonato due volte, prima?” dice Ally, cominciando a ridere come una matta.
Non so perché ma comincio a ridere anch’io.
“Hai fatto bene! E’ un bell’uomo?”
“Sì, Ally” risponde mamma.
“Siamo fieri di te, credici. Altro che vergognarci.”
Mamma apre la porta.
“Non vi vergognate di me?” ci chiede piangendo.
“Ma scherzi? Era ora che ti rimettessi con un uomo. Papà è morto da tanto di quel tempo...” le dico.
“Hai capito, la maliarda! E come l’hai accalappiato?” chiede Ally.
“Posso invitarlo? Passa il Natale da solo, poverino.”
“Mamma! Devi invitarlo, vogliamo conoscerlo. Vero Ally?”
“Ma certo! Dai, telefonagli e fallo venire qui. Su, forza.”
Mamma ci bacia sorridendo e va verso il telefono.
“I vostri regali sono sotto l’albero. Cominciate ad aprirli.”
Io ed Ally ricominciamo a ridere.

mercoledì 30 novembre 2011

Forse era anche primavera

Non sempre era il vento
a portare via l’odore
dalle foglie rubate ai rami
forse le ultime da masticare
Ruth sapeva farlo
potevano anche Karl e Kurt
io no, perché ero morto


una foglia è una foglia ma lì, lì, lì
tra i folli abbai di dobermann io pregavo
con il cranio rasato
chiedevo la spoliazione arborea.

Del tempo ho due colori

Ho il bianco tra le costole
il rosso tra le strette di mano
date
in un giorno qualsiasi


separato dalla nascita di un forse
sono qui come possibile muratore


e ho paura di morire parlando
tra parole in solitudine
dette lentamente come mio solito
che muoio parlando nella testa


e magari
saprò raccontare un muro


come si costruisce nel tempo
e come si abbatte in un istante


dell’eternità sbriciolata
racchiusa in una clessidra.

Abrasione da rivoluzione

Una calma pigra vaga nel cielo hopeful di Las Vegas
oppure
una mama messicana grida Ayudame! sul ciglio di un tombino
oppure
rarefatto arriva Dio su una mela verde con due piccioli
oppure










aspettando la rivoluzione con i polpastrelli abrasi su bolle di sapone.